Sandro De Alexandris. La pittura in assenza di pittura: l’impalpabile in corsa verso l’irraggiungibile.

Torino, classe 1939. Sandro De Alexandris studia all’Accademia Albertina ed integra la sua formazione artistica con vari soggiorni in capitali europee tra cui Parigi, Amsterdam e Monaco. Il curriculum del Maestro annovera numerose citazioni sulla letteratura critica; si citano le monografie riassuntive di Paolo Fossati, Sandro De Alexandris, il tempo sospeso della pittura, Martano Editore (Torino 1979); Roberto Pasini, Sandro De Alexandris, De Ferrari Editore (Genova 1997); Francesco Tedeschi, De Alexandris, De Ferrari Editore (Genova 2004); Claudio Cerritelli De Alexandris, Carte, Valente (Finale Ligure 2006); Claudio Cerritelli, Angela Madesani, Sandro De Alexandris, Nicolodi Editore (Rovereto 2007); Alberto Veca, De Alexandris, Equinozi, Annotazioni d’Arte (Milano 2008); Francesco Poli, Sandro De Alexandris, Il velo dell’aria, Giampiero Biasutti (Torino 2009); Gianni Contessi, Per Sandro De Alexandris in Sandro De Alexandris, Soglie, OOLP editore (Torino, 2014). Le sue opere, frutto di ricerca e sperimentazione sul rapporto tra forma e cromia, sono state esposte in numerose Gallerie e Musei di città italiane tra cui Bologna, Genova, Milano, Roma, Torino e Trieste, e straniere tra cui Basilea, Berna, Coblenza, Colonia, Francoforte, Graz, Hannover, Londra, Losanna, Mainz, Monaco, Parigi, Philadelphia e Zurigo. Dal settembre 2021 anche la Galleria Civica Mo.C.A. di Montecatini Terme può vantare in collezione un’opera che l’artista ha gentilmente donato nell’ambito di “Florilegio Italiano – artisti invitano artisti:” STANZA XLIX, tela ad olio e pastelli che, dunque, contribuisce ad arricchire la collezione dello spazio espositivo della città.

La sua attività artistica è il frutto di una continua ed ininterrotta ricerca che, fin dagli esordi, lo porterà a far “suo” un astrattismo che diventerà, negli anni, sempre più radicale. Fin dagli inizi della sua carriera, infatti, l’artista focalizza l’attenzione sullo studio degli elementi cardine della pittura, cioè la dimensione ed il colore, che codificano quella che potremmo definire la grammatica artistica, ovvero il linguaggio dell’Arte. Le sue opere sono state, non a caso, interpretate da Gianni Contessi come la segreta natura scrittoria della pittura.

Fonte di ispirazione del Maestro è Michel Tapié, critico francese che soggiorna a Torino; la fascinazione per l’Art autre, tendenza artistica “dell’informale” che si andava affermando in Europa e negli Stati Uniti nel decennio 1950-1960, diventa per l’artista una sorta di centro di gravità permanente, ossia un punto fermo, di partenza. Così, a partire dagli anni Sessanta, il Maestro si dedica allo studio della struttura formale più essenziale, ovvero la semplice linea orizzontale che diviene il centro di tutto, una sorta di grado zero della conoscenza. Questo processo spinge l’artista ad interpretare la pittura come un percorso formativo diretto alla ricerca della semplicità e della purezza della forma nonché alla cancellazione e all’azzeramento della materia; percorso mediante il quale il colore assume le sembianze – e la funzione – di un’atmosfera sospesa che cela e, al contempo, custodisce la forma in una realtà immaginaria ed immaginifica. Approdo di questa lunga e assidua sperimentazione è una pittura che si mostra in continuo dialogo con se stessa; una pittura che interroga la pittura e che mediante le suggestioni del colore e della luce si svela regalando fenomeni visivi sorprendenti nello spettatore; una pittura che, dunque, materializza non soltanto la dimensione mentale del Maestro ma che pone anche una riflessione sul ruolo dell’immagine e sui mezzi e sui materiali attraverso cui si sviluppa. Le parole chiave, dunque, per comprendere l’approccio e l’attitudine di De Alexandris verso la pittura, e poter così entrare in sintonia con i suoi lavori, sono progetto, indagine e organizzazione. Le sue opere non sono opere bensì superfici o, meglio ancora – come il Maestro stesso le definisce – sono oggetti: la loro realizzazione, infatti, è stata possibile solo grazie ad un uso prettamente sperimentale di una forma immaginata che, dunque, sta alla base di tutto e attorno alla quale si regge l’ambiente stesso in cui si sviluppa. Il modo di far pittura del Maestro si prefigura, dunque, come un atto mentale che ruota attorno alla forma e al concetto di possibilità: se una cosa è immaginabile lo è perché è pensabile cioè prefigurabile nella mente e, dunque, è realizzabile attraverso una azione ponderata, quindi è possibile renderla visibile, percepibile, palpabile. La carta, il supporto di ogni sua opera, soddisfa il pensiero e l’idea, poiché perfettamente liscia e candidamente bianca: al Maestro è quindi sufficiente farci una piega per creare la forma, dunque materializzare una dimensione mentale su cui luci ed ombre – ovvero il colore, per il Maestro – si manifestano nella potenzialità del loro linguaggio, per loro stessa natura. Da una prima ma non banale piegatura o increspatura, infatti, la carta reagisce in termini di variazione di intensità ed impatto della luce: ecco la pittura in assenza di pittura. Le superfici di De Alexandris sono state, perciò, definite “modulatori proporzionali” ovvero strumenti per materializzare un pensiero, che funzionano “a rispondenza visiva monocroma e a persistenza visuale complessa,” in cui il bianco del supporto cartaceo è colore ma, al contempo, non è colore: è materiale nudo e puro che fa da supporto, che diviene volume tridimensionale per la visione e la materializzazione della forma che resta, comunque, in un’atmosfera, in sospensione. Così facendo il Maestro allontana, cancella, rifiuta ogni forma di soggettività ed emotività dalla tela, lasciando così intendere che i suoi lavori siano una pura esperienza artistica leggibile come un processo di immagine, deduzione e produzione.

Nelle opere degli anni Sessanta, confluite poi in “Misure di spazio” (Monaco 1967), si avverte questo primo approccio allo studio della dimensione e della forma; le sue tele, infatti, sono una calibrata modulazione, ben graduata, di spazi bidimensionali che diventano protagonisti.  Sulla scorta di queste prime sperimentazioni volumetriche, il Maestro inizia a concedere più spazio al colore poiché riconosce nella cromia un mezzo per modulare e moltiplicare le superfici, cioè gli spazi tridimensionali che supportano la forma. Nel 1969 porta a compimento un ciclo di lavoro progettato pochi anni prima: “TS,” ovvero superfici rese a linee verticali, orizzontali o oblique, a spessori diversi, con tracce di colore, finanche pigmentazioni fluorescenti, attraverso cui si creano spazi di concentrazioni visive su tre dimensioni. Nella ricerca del Maestro i piani non si moltiplicano soltanto, ma possono anche diradarsi: geniali superfici lavorate a spessori minimi e ad articolazioni orizzontali/ortogonali permettono infatti di ottenere un effetto particolare, chiamato abbassamento percettivo che sottrae luce al supporto e porta ad un azzeramento dell’opera. Questo effetto trova definitivo compimento nel ciclo “t/n” (1974-1978): superfici graffiate ad andamento verticale in cui il Maestro riesce a raggiungere il non plus ultra dell’abbassamento percettivo. Le opere appartenenti a questo ciclo segnano una vera e propria svolta nello stile dell’artista. La visione è infatti talmente ridotta al minimo da suscitare una sorta di disorientamento e cecità che in realtà è solo apparente; è il frutto di una reazione momentanea degli occhi di chi è portato istintivamente a ricercare nella tela un contenuto coloristico e volumetrico nonché una profondità spaziale; è la superficie che invita ad una meditazione visiva. Lo spettatore, sorpreso dalla mancanza di contenuto, scopre che, in realtà, questo grande vuoto è solo un inganno superficiale e che proprio la superficie regala una profondità inaspettata: se si graffia il bianco, infatti, si scopre un altro bianco, un’altra superficie, quella del muro sottostante. La pittura del Maestro è dunque un concetto poiché la sua visione prende corpo e si manifesta da una o più linee e dagli effetti della luce e dell’ombra; è possibile scorgerla e poi contemplarla; se ne può parlare; la si può descrivere, la si può raccontare.  Le sue opere sono, al contempo, la materializzazione dello stupore che si crea dalla lettura del bianco che custodisce e svela una profondità e quindi regala altre dimensioni, in un viaggio senza fine: è la pittura che corre verso l’altrove. Le opere di questo ciclo sono dunque un’epifania, una rivelazione fulminea, improvvisa ottenuta mediante un accecamento visivo, cercato, studiato, progettato e voluto deliberatamente.

Questo processo spinge il Maestro ad interessarsi anche agli spazi orizzontali: a partire dagli anni Ottanta realizza cicli di “Trittici” in cui le tre parti non sono realmente separate ma risultano concatenate logicamente ed in cui continua a sperimentare luci ed ombre in associazione alla cromia. Questa serie è, dunque, sia il lascito della sua precedente esperienza sia un superamento della stessa metodologia: si assiste, infatti, alla realizzazione di tele in cui, oltre a frange, strappi, sovrapposizioni, differenti textures e consistenze, si aggiungono frammenti di pittura, cioè carte colorate che sembrano accumularsi spontaneamente. Nei Trittici, definiti non casualmente il teatro della pittura, si ritrova il fenomeno dell’abbassamento percettivo delle superfici a cui si aggiungono, però, questi estesi campi cromatici: si ottengono e si ammirano, così, superfici graffiate e trasparenze colorate che, coesistendo vicendevolmente, si uniscono in un rapporto intenso, conflittuale, antitetico e cerebrale.

Superata una pausa di riflessione sul proprio modus operandi, durante la quale i progetti ed il campionario di tele va notevolmente diminuendo, a partire dalla metà degli anni Novanta l’artista si dedica nuovamente alla pittura che dunque diventa, automaticamente e deliberatamente, molto più meditativa. La tela diviene una sorta di limen, cioè un margine indefinito entro cui il Maestro sembra tentare di imbrigliare la pittura; diviene un confine che separa la dimensione reale dall’altrove ed entro il quale la pittura entra in scena. È dunque possibile considerare De Alexandris un pittore policromo: il colore si impone, infatti, sulle tele quasi prepotentemente, in prospettive evanescenti che, sfuggendo dalla dimensione reale del limen, corrono verso una dimensione non definibile e pertanto priva di una connotazione spaziale possibile. In questa fase è dunque fondamentale, per l’artista, fare della superficie pittorica porzioni di spazio ottenute mediante flebilissime righe che reggono e danno equilibrio al campo pittorico entro cui il colore è l’impalpabile in corsa verso l’irraggiungibile. Le superfici sono, dunque, una pittura d’atmosfera, di sospensione, di memoria e di amnesia; sono paragonabili ad un’isola che non c’è,anzi ad una Itaca, se non ad una vera e propria Atlantide, avvolta dalle nebbie leggere del colore che lasciano intuire la presenza di una dimensione reale ma dimenticata e perennemente sfuggente.

In conclusione, le superfici sono un viaggio di formazione artistica; sono un viaggio cerebrale poi meditativo e sensoriale, mosso dall’amore per la pittura, attraverso la forma ed intorno al colore.

In foto: STANZA XLIX, 2016, olio e pastelli su tela, cm 145×100, facente parte della collezione Mo.C.A.