Igino Legnaghi

Igino Legnaghi nasce a Verona il 5 gennaio 1936, frequenta l’Istituto d’Arte N. Nani e l’Accademia di Belle Arti G. Cignaroli, nella stessa città; viene poi avviato alla carriera artistica grazie all’esperienza maturata nel laboratorio di argenteria del padre, grande artigiano e cesellatore, dove sperimenta la lavorazione dei metalli. Completa la propria
formazione con una serie di viaggi negli Stati Uniti che lo introducono all’uso di metalli e leghe innovativi. Espone la prima mostra personale alla Galleria Ferrari di Verona nel 1967, quindi dalla metà degli anni Sessanta partecipa a diverse rassegne nazionali ed internazionali. Di particolare importanza la partecipazione alla Biennale di Venezia nel
1966 e 1968, e alla Quadriennale di Roma nel 1972. Dopo aver insegnato in diverse Accademie tra cui Foggia, Bologna e Verona, dal 1989 è titolare della cattedra di scultura presso la NABA-Nuova Accademia di Belle Arti di Milano; dal 2007 è membro dell’Accademia di San Luca. Molte opere figurano in importanti collezioni pubbliche e
private tra cui si ricordano la Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma, il Museum of Modern Art di Tel Aviv, The New School Art Center di New York, Collezione Carlo Invernizzi di Milano, la Pace University, la State University di Postdam, l’American Federal Bank di Colorado Springs.
L’opera donata al Mo.C.A., nell’ambito dell’ambizioso progetto Florilegio Italiano – artisti invitano artisti, è esemplare della produzione di Legnaghi, fatta di forme pulite, nitide, di materiali solo apparentemente sterili: infatti nasconde dietro la propria semplicità formale un preciso ordine costruttivo che lascia intendere –senza suggerire facili emozioni- una rappresentazione fedele dell’esistenza, e dell’immobilità del tutto. Nel trovare il senso profondo di questa apparente staticità sta la poetica propria dell’artista, che in quest’opera di dimensioni minori rispetto alla sua produzione monumentale più nota, risulta concentrata e paradossalmente ampliata.
Le prime opere realizzate dall’artista vedono l’utilizzo dei materiali preziosi della bottega paterna e dal 1967 realizza un ciclo di opere dominate da tre elementi formali fondamentali: il piano, il cubo e il nastro a zig-zag – servendosi di materie preziose, per poi cimentarsi nell’uso di anticorodal, una serie di leghe di alluminio alligate con manganese, magnesio e silicio caratterizzate da un ottimo resistenza alla corrosione. Il legame con l’uso dei metalli si affina grazie all’impiego dell’artista all’interno di una fabbrica metalmeccanica dove gli viene permesso l’utilizzo delle macchine e delle tecnologie presenti per realizzare le sue opere.
Alla fine degli anni Sessanta, nel 1968, Legnaghi tiene la sua prima personale alla Galleria Ferrari di Verona dove conosce Paolo Cardazzo – mecenate, editore e collezionista – con cui l’artista stringe un rapporto di collaborazione oltre che di profonda amicizia. Nello stesso anno inizia a collaborare anche con la Fabbrica Polin di Verona dove si costruiscono forni per la panificazione che gli “offre” la possibilità di utilizzare le proprie macchine e sperimentare con esse la lavorazione di materiali come l’acciaio inossidabile. È così che la produzione di questo periodo, seppur vincolata alle regole costruttive stabilite ed imposte dalle macchine e dalle tecnologie impiegate, non ne resta “succube” salvaguardando l’aspetto di imponderabilità tipico delle sue opere. Dopo la morte dell’ingegner Antonio Polin, nel 1977, inizia una nuova collaborazione con un’azienda, Biasi Caldaie di Verona, che produce caldaie in ferro, materiale con cui inizia a realizzare opere monumentali abbandonando per qualche anno la realizzazione di sculture con materiali dalle superfici precise al millimetro. L’impiego di questo “nuovo” materiale, usato al suo stato naturale “arricchito” dei segni lasciati dal tempo e dal suo precedente utilizzo, porta lo scultore a definire questa fase della sua produzione «ritorno al ferro primigenio». Utilizzando grandi lamiere corrose ricavate da navi in disarmo, che gli sembrano sprigionare un’energia elementare in un ampio coinvolgimento spaziale. In questo materiale egli cerca i segni, i tagli, gli strappi, i segni del tempo e del vissuto, “notizie da decifrare – come afferma lo stesso Maestro – che mi piace siano insieme alle tracce che io lascio nella nuova destinazione plastica di scultura”.
In foto: Per Maddalena D. P., acciaio inox, 1985, cm 62×62