Giuliano Menegon
Venezia, classe 1945. Fin da bambino, Menegon prova un forte trasporto verso il mondo dell’Arte, tanto che inizia a dipingere già a 15 anni: le sue fonti di ispirazione sono Van Gogh e gli scenari in notturna della sua Venezia nelle sere d’estate. Dopo la maturità inizia a lavorare per uno studio di grafica pubblicitaria (Studio Firma) di Genova dove, grazie alla complicità, alla comprensione e al supporto del proprietario, Ettore Veruggio, può finalmente dare spazio alle suo estro artistico. Nel frattempo si iscrive alla Facoltà di Filosofia, ma poi passa a Storia dell’Arte dove conosce Rossana Bossaglia, docente di Storia della Critica, che diventerà una figura di fondamentale importanza per la formazione professionale dell’artista.
Mentre muove i primi passi di una carriera che si rivelerà di grande successo, Menegon stringe rapporti e sodalizi con storici dell’arte, pittori e poeti che influenzano il suo stile ed ispirano le sue opere. Nel 1966 lavora come aiuto-scenografo al Teatro stabile di Genova, dove conosce Carlo Cego, pittore veneto, assistente di Gastone Novelli. Agli inizi degli anni Settanta, incontra lo storico dell’Arte Corrado Maltese che diviene suo mentore e non fa mancare al giovane artista consigli e suggerimenti su come leggere, interpretare, affrontare le proprie tele. Conosce poi Martino Oberto, esponente della poesia visiva, che manifesta un vivo interesse per i lavori del giovane Menegon, in particolare per la presenza di scritte sulle tele. Alla Biennale del 1970 può osservare per la prima volta le opere di Claudio Verna del quale stima il rigore artistico ed intellettuale. Nel 1977 incontra Michelangelo Pistoletto di cui ammira con interesse e curiosità la convinzione di dover uscire fuori dagli schemi, da ogni limite, ovvero dalla superficie pittorica: la pittura dell’artista, che rifiuta di essere imbrigliata entro i quattro angoli di una tela, non rispecchia la visione di Menegon che, infatti, riesce ad esprimersi solo considerando la superficie come un limite, ovvero come uno spazio entro cui sperimentare ed utilizzare la pittura. Il Maestro percepisce la tela come un vero e proprio trampolino di lancio verso nuove e continue sperimentazioni; il solo ed unico vero limite è quello della ricerca, ovvero dello stile della rappresentazione, delle sperimentazioni materiche, dell’uso e dell’interpretazione della luce.
Appare dunque chiaro come lo stile e la pittura di Menegon si profilino come un vero e proprio unicum nel panorama artistico contemporaneo. La sua pittura, infatti, è letteralmente POESIA, ovvero è trasposizione, materializzazione di parole e sentimenti su tela. La fonte di ispirazione delle sue opere è, infatti, la letteratura che si materializza mediante la tecnica ad olio, avvertita come unico mezzo espressivo possibile poiché forte ed incisiva quanto le parole. I Pisan Cantos di Ezra Pound segnano l’inizio di questo cammino nell’Arte ed ispirano una serie di lavori confluiti, poi, in una delle sue prime esposizioni, La tenda pisana, ospitata alla Galleria La Bertesca di Genova (1978). Dopo la lettura di Pound, Menegon si dedica anche a Rimbaud, Eliot, Montale, Campane e Rilke; nasce così un ciclo di opere realizzate con una tecnica ad acqua, i cui colori tenui imprimono su tela concetti che nascono come segno e si completano, poi, mediante sperimentazioni polimateriche ad inserti applicati.
Alla fine degli anni Ottanta la lettura di Thomas Bernhard, che percepisce nell’umanità un senso profondo di disperazione mosso da una realtà priva di speranze future, suggerisce al Maestro di utilizzare la pittura come mezzo espressivo con un fine puramente estetico; da questa esperienza scaturisce, così, un nuovo approccio nei confronti della letteratura che, dunque, non è più una traccia da seguire pedissequamente, ma un’orma da cui poter poi condurre, poi, un cammino in solitudine. I colori iniziano dunque ad assumere un valore puramente simbolico: il nero ricorda le tenebre, dunque racconta i turbamenti, le ansie e le angosce dell’animo umano, il bianco restituisce il senso freddo di un totale quanto improvviso ed irrecuperabile disincanto, il rosso trasuda passione così come martirio. Le tele, le cui superfici iniziano ad ispessirsi con stratificazioni di materia a colpi di spatola, iniziano così ad essere animate da fantasmi, da volti colti in spasmi di dolore, da sguardi che accennano alla morte, alla paura, al terrore; le tele sono lo spazio in cui l’artista, anzi l’uomo Menegon si guarda allo specchio e scandaglia l’animo umano. Menegon è, dunque, un Munch calato nello spaccato del tempo contemporaneo.
La lettura di Paul Celan contribuisce alla definitiva consacrazione del Maestro che si evolve in una sorta di pittore della solitudine interiore: i suoi soggetti, infatti, appaiono soli davanti a loro se stessi, soli davanti all’abisso delle loro paure più profonde. Nei suoi lavori compaiono fantasmi ammutoliti, se non, addirittura, presenze umane appena abbozzate che urlano in silenzio, che trasmettono platealmente, e senza pudore, sofferenza e disperazione. Nelle sue opere si nota quanto l’uomo abbia ormai perduto la certezza di rivestire un ruolo centrale all’interno di un mondo avvolto nel turbinio della rivoluzione tecnico-industriale che spazza via ogni dimensione temporale, affettiva e meditativa. Il sentimento che, come un virus, dilaga nella società è la paura ed il dolore della solitudine; un dolore che il Maestro esprime, dal punto di vista formale, mediante il bianco che, nella sua luce abbagliante, è impietosamente tagliente. Il bianco è dunque la materializzazione della disperazione più profonda che possa provare un uomo nel corso della sua esistenza, e che lo rende cieco, incapace di azioni e reazioni, di raziocinio, autocontrollo e stabilità. Nella vastità della luce che investe le tele e colpisce chi le osserva, il Maestro riesce comunque ad intravedere una speranza di salvezza: se nel mondo non è possibile trovare conforto, l’uomo può contare sull’altro, può rivolgersi verso l’altro e affidarsi alla reciproca comprensione. Il Maestro, dunque, afflitto dal senso di oppressione del mondo, cerca egli stesso un dialogo pacato con il suo spettatore; cerca uno scambio, un contatto, un senso di serenità e rassicurazione. Per il Maestro, che dunque riesce a riequilibrare la dimensione umana nella vastità del dolore del mondo, vivere è, sì, possibile ma solo nel NOI.
Menegon ha preso parte a numerose esposizioni, sia collettive sia personali, in ambito nazionale ed estero. Ad oggi, anche la Galleria Civica di Montecatini Terme – Mo.C.A. Montecatini Contemporary Art – vanta in collezione un’opera del Maestro, intitolata E potessimo essere noi senza di noi (da P. Celan); il quadro, un meraviglioso olio su tela, gentilmente donato dall’artista nell’ambito dell’ambizioso progetto “Florilegio italiano – artisti invitano artisti,” contribuisce a far accrescere in prestigio la già importante collezione della galleria cittadina.
In foto: E potessimo essere noi senza di noi (da P. Celan), 2017, olio, acrilico e grafite su tela, cm 136×108